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CINECOCKTAIL 4, THE ITALIAN HORRORSHOW - intervista a Paolo Fazzini, regista - Italiano

20/02/2008

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CINECOCKTAIL 4, THE ITALIAN HORRORSHOW - intervista a Paolo Fazzini, regista - Italiano
CINECOCKTAIL 4, THE ITALIAN HORRORSHOW - intervista a Paolo Fazzini, regista - Italiano

Intervista di ROBERTO DONATI per CENTRALDOCINEMA


Ciao Paolo!, da anni ti dividi fra l’editoria specialistica e il cinema invece da realizzare veramente. Cosa preferisci e cosa ti senti di più: critico o regista?, o l’essere l’uno integra e completa l’essere l’altro?

La mia principale attività professionale è la regia, che rimane il campo verso il quale tutti i miei sforzi sono rivolti. Naturalmente, essendomi laureato in Filmologia, il ragionare e lo scrivere di cinema è sempre stata una mia attività parallela, diciamo un hobby eccelso. Quest’aspetto si è però intensificato negli ultimi due anni, cioè dalla pubblicazione del mio primo libro Gli artigiani dell’orrore, cui ha fatto seguito Tremendamente terrunciello e alcune pubblicazioni su riviste cartacee e online. E’ anche vero però che ho iniziato a sperimentare i mezzi tecnici relativi alle riprese fin dall’età, più o meno, di 13 anni, quando mi cimentavo nella realizzazione di cortometraggi in super 8, prima e, di seguito, con la crescente diffusione delle tecnologie, in video. Ma è stato durante il periodo universitario che si è accresciuta la mia competenza tecnica: ho diretto diversi corti che mi hanno permesso di venire in contatto con professionisti del settore e con le realtà dei festival nazionali. Quando mi sono trovato a dover pensare e realizzare un prodotto professionalmente competitivo mi è sembrato naturale partire da un documentario, incentrato peraltro su uno degli argomenti che, cinematograficamente, più mi affascinava, e cioè l’horror. Naturalmente il saper affrontare e analizzare criticamente il cinema, la sua storia e i protagonisti sono stati strumenti preziosi per riuscire ad ottenere dei risultati soddisfacenti nei documentari che ho diretto.

Dal nick scelto dalla tua compagnia (Gore Bros) e dal sito, prima ancora di conoscere i tuoi lavori e le tue passioni, si evince l’interesse verso il cinema di genere italiano, quello dimenticato e tralasciato per decenni e oggi invece oggetti di interesse, di culto, di oltranzismo esasperato ed esasperante. Lo hai scelto tu o ti ha scelto lui? Ovvero: perché proprio questo genere di cinema e come stai vivendo i radicali mutamenti nel pensiero critico?

Francamente non nutro un’indistinta passione per tutti i generi cinematografici italiani. Vivo però la passione per il cinema fin da bambino e ciò mi ha permesso di guardare, senza sovrastrutture intellettuali, qualsiasi tipo di pellicola mi capitasse a tiro. Mi piaceva una commedia all’italiana così come un film drammatico americano, o un poliziesco. Come ho accennato prima da ragazzino ho iniziato a giocare con la macchina da presa, ed è proprio in quel periodo che è nata la sigla Gore Bros, che stava ad indicare un insieme di persone accomunate dalla voglia di fare qualcosa.
In merito alle tendenze che la critica, negli ultimi anni, sta assumendo verso questo tipo di film non posso suggerire altro che di prendere le distanze da qualsiasi tendenza modaiola e passeggera e da qualsiasi sfruttamento intellettuale. All’interno di ogni genere cinematografico esistono film bellissimi ma anche film eccezionalmente brutti, quindi il primo approccio è quello di valutare ogni singola pellicola e ogni singolo autore. Credo che si debba comunque evitare di esaltare o ghettizzare, senza un’accurata ricerca, un regista o un titolo semplicemente perché la critica o la tendenza ce lo imponga. Un’altra cosa che trovo insopportabile è che un patrimonio intellettuale come quello dell’horror italiano non dia luogo a una rivisitazione da parte dei nostri registi di oggi, e che invece questo sforzo interpretativo e di adeguamento alla realtà attuale venga messo in atto da autori stranieri, per i quali personaggi come Mario Bava o Lucio Fulci sono dei miti assoluti. E’ vero che esiste un cinema più commerciale e uno più, cosiddetto, d’autore, ma come dicevo prima bisognerebbe innanzitutto avere, da spettatori, un’idea di cinema propria e con quella approcciare alla visione di ogni singolo film che si sceglie. Essere, insomma, degli spettatori selettivi e coscienti. Forse così si riesce a guardare e, eventualmente, godere un film sia che porti la firma di Antonioni o che porti quella di Bava.

C’è un sottogenere, all’interno del genere diciamo B-movie, che preferisci e che hai trattato più diffusamente?

Bè, sicuramente l’horror. E’ una mia vecchia passione da spettatore, che poi però mi ha anche spinto a realizzare due documentari e un libro sull’argomento. Non sarei riuscito a fare altrettanto riferendomi al western, per esempio, o al poliziesco. Da bambino, in realtà, non riuscivo a vedere i film dell’orrore, con tutto quel sangue, quella tensione…ma poi iniziò a cambiare qualcosa e l’avvicinamento all’horror è avvenuto guardando i film di David Lynch. Insieme a un amico ho cominciato a reperire quegli horror che riuscivamo a trovare nelle videoteche di Ascoli Piceno, la città in cui sono nato. Si trattava di prodotti tutti americani, tanto che credevo che gli horror italiani fossero delle mere scopiazzature di quelli americani… mentre poi ho capito che era tutto il contrario.

Ci puoi raccontare brevemente la genesi, e le differenze, dei due documentari ‘Le ombre della paura’ e ‘Hanging Shadows’…

Nel 2001 ho avuto l’idea di costruire, filmicamente, una storia del cinema dell’orrore italiano, e così insieme a Marco Cruciani (co-regista di Le ombre della paura) e Daniele Casolino (co-produttore) abbiamo tentato di riprendere il linguaggio dei documentari degli anni Sessanta: secondo noi quel poco di informazione sul cinema horror, visibile in tv, era di bassa qualità; i servizi erano di portata limitata, nessuno dava la visione d’insieme del fenomeno, nessuno faceva davvero parlare i protagonisti. Col linguaggio classico del documentario abbiamo cercato di colmare questo vuoto. Le ombre della paura si concentrava sul ventennio ’60-’80 e naturalmente avevamo pensato di dare un seguito a quel lavoro: un documentario che si occupasse di ciò che era successo dagli anni ’80 in poi. Ma qualcosa non ha funzionato. Gli altri collaboratori, per un motivo o per l’altro, hanno abbandonato il progetto e le nostre strade si sono divise. A complicare le cose è intervenuta una famosa casa editrice che voleva produrre il lavoro, ma che poi, alla fine, si è tirata indietro. Sfumava così l’ipotesi di questa sorta di sequel. Io però avevo già iniziato a raccogliere del materiale, interviste, testimonianze, per cui ho deciso di riprendere in mano l’idea e di realizzare comunque un documentario che, seppur indipendente dal capitolo che lo aveva preceduto, raccontasse il cinema horror italiano degli anni ’80, i suoi successi e le sue crisi. E così è nato Hanging Shadows – Perspectives on italian horror cinema. Ma non mi interessava ripetere la formula e lo stile di Le ombre della paura, per cui questo nuovo lavoro non si pone come obiettivo principale il ricostruire storicamente la genesi di generi e film, ma si concentra molto più su alcune tematiche, testimoniando anche ciò che di attivo c’è oggi nel campo della produzione horror indipendente. Molta attenzione ho posto anche nel lavoro sulla colonna sonora, aspetto che nei documentari passa spesso in secondo piano.

E che distribuzione, o quantomeno diffusione, hanno avuto?

Le ombre della paura è stato proiettato praticamente in tutti i festival italiani, dal Torino Film Festival a Bellaria, fino al Festival di Venezia del 2004 in cui, all’ultimo momento, è stato inserito nella sezione Italian King of the B’s. Hanging Shadows ha ancora una vita piuttosto breve (è stato terminato definitivamente nel gennaio del 2006) ed è stato presentato al Noir in Festival di Courmayeur e al F.I.P.A. di Biarritz, in Francia. Naturalmente l’obiettivo è di avere una distribuzione ufficiale che si occupi della promozione e delle vendite, per cui Le ombre della paura è stato affidato alla Mikado mentre per Hanging Shadows ho appena concluso un accordo con la Cinema Guild Inc. di New York che si occuperà di promuoverlo negli Stati Uniti. Paradossalmente però Hanging Shadows non ha ancora una distribuzione per l’Italia.

Anche io sono dell’idea che far parlare gli autori spesso è molto più intrigante che un percorso critico esterno. Quello che ho notato è che questi autori spesso non hanno tanto di interessante da riferire, preferendo rifugiarsi nella compassionevole nostalgia; invece tu riesci a far loro assumere una consapevolezza inusuale… Che approccio hai adottato per metterli così a loro agio?

Per realizzare un documentario efficace (di qualsiasi tipo) è necessario immergersi nella realtà che si sta raccontando, entrare in contatto con i protagonisti, conoscerli, parlarci, entrare nelle loro psicologie. E’ ciò che tento di fare ogniqualvolta realizzo un lavoro simile. Ho frequentato alcune delle persone che ho inserito nei documentari e questo ha fatto sì che io perdessi quello sguardo esterno che inevitabilmente andrebbe riflesso nel risultato finale, rendendolo fittizio. Le persone che avvicino devono fidarsi di me, devono sapere che sono lì a parlare con loro perché sono davvero interessato a capire cosa è successo nelle loro vite professionali, che ho voglia di passarci qualche serata insieme, al di là del lavoro che sto svolgendo. Se si riesce a creare un contatto simile, nel momento in cui si va a registrare l’intervista, la telecamera non fa pesare la sua presenza e gli intervistati assumeranno un atteggiamento naturale…insomma, non mi considereranno un semplice critico o appassionato che è lì soltanto per mezz’ora. Questi registi, tecnici e attori non sono dei fenomeni da baraccone ai quali rivolgersi soltanto quando si ha voglia di ascoltare qualche aneddoto bizzarro, ma spesso sono persone spinte da profonda passione, consapevolezza, cultura, e che per fare cinema si sono sacrificati e battuti. Credo che quest’aspetto emerga dai documentari che ho realizzato.

L’avvento del video, e poi del digitale, ha permesso un fiorire spesso inesplorato di cinema amatoriale (molto è horror, appunto), ora incolto e rozzo ora intelligente o se non altro divertente… Cosa ne pensi? Arriverà mai a una distribuzione effettiva o forse nemmeno i suoi (f)autori lo vogliono?

Credo che chiunque faccia un corto, un film o un documentario desideri mostrarlo il più possibile e quindi ottenere una distribuzione più o meno efficace. Questo è davvero l’ostacolo più difficile da affrontare, ancor più che girare qualcosa. Non vorrei entrare nel merito dei meccanismi delle distribuzioni, sia perché è argomento troppo articolato, sia perché in Italia la situazione è drammatica. E’ vero che il digitale ha reso più semplice realizzare dei prodotti, che inevitabilmente si sono moltiplicati, ma è anche vero che non mi capita spesso di vedere dei buoni risultati. Bisogna capire che, anche disponendo di tecnologie più economiche, si deve prestare molta molta attenzione alla fase di scrittura, alla recitazione e agli altri aspetti tecnici del filmare. Questo sta diventando davvero necessario se si vuol realizzare un prodotto competitivo. Inoltre alcuni difetti emergeranno ancor più marcati se si opera nel campo dell’horror, genere in cui la minaccia di cadere nel ridicolo involontario è sempre presente.

Per il futuro cosa stai preparando/progettando?

Per quanto riguarda la regia sto preparando delle cose, ma è ancora troppo presto per parlarne. In merito alle pubblicazioni, invece, è prevista per maggio l’uscita del mio nuovo libro, Visioni Sonore – Viaggio tra i compositori italiani di colonne sonore (edito da Un mondo a parte) che raccoglie molte interviste ai nostri musicisti, troppo spesso ignorati dalla critica ufficiale. Ho voluto affrontare la descrizione di questa professione, all’interno del mondo del cinema, raccontata però da un punto di vista personale e piuttosto singolare.


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